martedì 8 gennaio 2008

Liliana Magrini. Dossier Maghreb

Dossier / Maghreb


Tentativi di integrazione ed elementi di divaricazione
di Liliana Magrini


II progetto per la creazione del « grande Maghreb », che fu oggetto di discussione ai vari livelli fra Algeria, Tunisia, Marocco, Libia e Mauritania soprattutto nel corso degli anni '60, non è riuscito a decollare. La differenza dei modelli economici e i fattori di antagonismo politico continuano a rendere ardua quella concertazione di strategie di sviluppo necessaria per giungere all'integrazione fra i cinque paesi o almeno fra alcuni di loro. Il fluttuante atteggiamento della Libia e il ruolo « centrale » dell'Algeria. La crisi del Sahara. I rapporti con la Cee i problemi della sicurezza nel Mediterraneo. Sul ruolo dell'Europa verso i paesi maghrebini una nota di Edgard Pisani.



Abbiamo assistito di recente, tra i paesi maghrebini, a una fitta serie d'incontri in cui è stata tentata non solo una fallita me­diazione tra Algeri e Rabat, ma anche un ennesimo rilancio del progetto d'integrazio­ne del « grande Maghreb » nella sua acce­zione più estesa, e cioè comprendente, ol­tre a quel nucleo centrale che è costituito da Algeria, Tunisia e Marocco, anche Libia e Mauritania. I motivi di contrasto sono tuttora troppo rilevanti perché si possa ipo­tizzare a breve termine la realizzazione di questo obiettivo. Tuttavia l'insistenza con cui esso viene riproposto dopo ogni perio­do di più acute tensioni, e d'altra parte l'im­portanza che la sua attuazione potrebbe as­sumere per gli equilibri mediterranei e afri­cani, inducono ad una indagine sulla reale entità dei fattori di attrazione e di repul­sione inerenti a questo tenace mito orientatore.
Alla base di una appartenenza al Magh­reb sancita dalle rispettive Costituzioni, an­che il gruppo dei tre non ha alcuna tradi­zione di unificazione statuale, avvenuta sol­tanto per breve tempo (poco più di mezzo secolo) sotto l'impero degli Almohacli: oltre allo spazio geofisico, ha in comune soprat­tutto la cultura inerente a una medesima et­nia originaria (il mondo berbero) e alle me­desime sovrapposizioni esterne, dai fondaci e le città fenice alla conquista romana, alla profonda penetrazione e acculturazione ara­ba, alla amministrazione ottomana (salvo in Marocco) e infine alla medesima occupa­zione coloniale: insomma, una histoire-objet, per riprendere una espressione di Laroui, in gran parte definita da connotazioni e col­legamenti esterni. Una fusione statuale ap­pare oggi totalmente utopistica: non però quella concertazione politica ed economica, di cui viene periodicamente avvertila l'esi­genza.
Il tentativo d'integrazione del Maghreb ha assunto una forma istituzionale, per quanto ancora embrionale, soltanto lungo gli anni '60. Non sarà inutile ripercorrere l'iter di questi tentativi, e i termini in cui è stato affrontato il problema, per indi­viduare su quali elementi coagulanti ve­nisse posto l'accento, e quali siano stati i più gravi fattori di blocco, a parte i mo­tivi contingenti di tensione e di conflitto: tra questi ultimi, il contenzioso riguardante la frontiera algero-marocchina, sfociato nel 1963 in un conflitto armato e solo formalmente composto nel 1969 — senza porre termine alle rivendicazioni marocchine — dal trattato di Ifrane; e, molto meno viru­lenti, quelli riguardanti le frontiere algero-tunisina e algero-libica.
Se l'entità « Maghreb » è stata spesso presente nella terminologia dei movimenti anticolonialisti dei tre paesi, il problema del­l'integrazione viene posto per la prima vol­ta, nel 1958, alla Conferenza di Rabat, in­detta, per consentire una omologa parteci­pazione algerina, non dai governi ma dai partiti: PIstiqlal, il Néo-Destour e il Fin. In questa sede, veniva addirittura auspicata una soluzione federativa, che avrebbe do­vuto essere preparata da una comune e mai istituita « Assemblea consultativa del Maghreb arabo » emanata dai due partiti go­vernativi e dal Fln.
Nel 1964, la Conferenza dei ministri mag-hrebini dell'Economia, riunita a Tangeri, dava al progetto una prima base istituzio­nale impegnandosi a periodiche riunioni, e creando un organo permanente, il Consiglio consultivo del Maghreb, affiancato da vari comitati tecnici e incaricato di "promuovere il coordinamento dei piani di sviluppo... preparare le condizioni di una armonizza­zione industriale... e precisare le basi di un quadro multilaterale per scambi commer­ciali privilegiati ». Al protocollo di accordo, firmato a Tripoli nel 1965, aderiva anche la Libia. Nel 1967, il Comitato presentava alla Conferenza ministeriale un primo pro­getto, che, esplicitamente scartando il mo­dello Cee, optava per una integrazione pro­gressiva, fondata sulla interazione tra una graduale liberalizzazione degli scambi e l'ar­monizzazione dei processi di industrializza­zione, e sulla creazione di una Banca mag-hrebina d'integrazione per il finanziamento di progetti comuni. Incaricato di approfon­dire questa formula, il Comitato presentava nel 1970 un progetto definitivo alla Con­ferenza di Tangeri, dove l'approvazione ve­niva evasivamente rinviata ad ulteriori ap­profondimenti. Nel frattempo, in seguito al colpo di stato del 1969, era avvenuto il ritiro della Libia che, attirata ormai dalla costituzione di un « fronte tripartito » con la Rau (Egitto) e il Sudan, criticava aspra­mente, sul piano politico, il progetto magh-rebino. Lentamente, l'attività del Comitato si arenava. Sul piano multilaterale, i risul­tati si limitarono ad alcuni accordi nel set­tore dei trasporti; e a questo livello, il ten­tativo d'integrazione sembrò definitivamen­te tramontato.
Questa vicenda potrebbe indicare semplicemente la non praticabilità della inte­grazione perseguita, se contemporaneamente non si fosse costituita quella che possiamo definire, con Bruno Etienne, come una fit­tissima rete di « accordi bilaterali a più », generalmente formulati in nome della per­seguita unione maghrebina, e a proposito dei quali uno degli organismi comuni creati negli anni '60 poteva addirittura parlare di « ipertrofia »: quasi che appena si apriva uno spiraglio nel quadro delle ricorrenti tensioni, venisse subito a emergere una spontanea tendenza al collegamento e alla interpretazione. Dal 1963 al 1970, si con­tavano così tra i paesi maghrebini quat­tro accordi di fraternità, buon vicinato e co­operazione (oltre a quelli già esistenti in precedenza tra Tunisia e Libia e Tunisia e Marocco), e sul piano delle convenzioni ri­guardanti specifici settori, 27 accordi Alge­ria-Marocco, 40 Algeria-Tunisia, 12 rispet­tivamente Algeria-Libia e Libia-Marocco, e vari rilevanti accordi Tunisia-Libia. Paral­lelamente, con movimento spontaneo, si mol-tiplicavano le associazioni intermaghrebine di carattere professionale. Il fenomeno con­tinuava negli anni '70, ma le ricorrenti ten­sioni Libia-Marocco, giunte ad una totale rot­tura in relazione ai tentati colpi di stato in Marocco del 1971 e 1972, le fluttuazioni dei rapporti libici con la Tunisia (dalla fusione annunciata a Gerba nel 1974 e immediata­mente contraddetta, alle tensioni per la piat­taforma continentale e al non smentito inter­vento libico di Gafsa) e infine, dal 1975, la nuova crisi dei rapporti algero-marocchini in relazione al Sahara occidentale, venivano a circoscriverne l'ambito, lasciando piena e cre­scente esplicazione al bilateralismo soltanto tra Algeria e Tunisia.
Per quanto riguarda la Libia, si deve sot­tolineare che k sua ricorrente aspirazione alle « fusioni » — dal tentativo di Gerba al­la « unione arabo-africana » sancita nel 1984 dalla convenzione di Oujda con il Marocco — si è rivelata, ai fini della integrazione magh­rebina, non meno pericolosa delle sue impen­nate aggressive, in quanto è stata ogni vol­tai — e non senza motivo — avvertita dal­l'Algeria come un tentativo di contrastare la sua influenza regionale, perenne oggetto di malcelata rivalità tra i due paesi, riducendo Algeri a un sostanziale isolamento. È chiara d'altra parte l'importanza strutturale che as­sume, per qualsiasi progetto maghrebino, la soluzione del problema del Sahara, problema-chiave che investe direttamente la Maurita-nia, passata dall'alleanza marocchina a quel­la algerina, e che può esercitare una influen­za determinante sui futuri equilibri di tutta la regione.
Comunque, dal 1970, l'unica iniziativa di rilievo realizzata all'insegna del « grande Maghreb » è stata segnata, nel 1983, dal nuo­vo « accordo di fraternità e concordia » tra Algeria e Tunisia dichiaratamente aperto a tutti i paesi della regione, e che otteneva ra­pidamente l'adesione della Mauritania.

I fattori economici

Se la interpenetrazione fra i « tre » sem­bra spontaneamente suggerita dalla omoge­neità dell'ambiente geofisico e dall’indistin­zione delle frontiere (comune quest'ultima ai « cinque » del « grande Maghreb »), a tale omogeneità è innanzi tutto connessa una analogia di produzioni che certamente non facilita l'accordo. Rifiutando il modello Cee, il Comitato permanente consultivo aveva mo­strato di comprendere chiaramente che i fat­tori di complementarità indispensabili ad ogni liberalizzazione commerciale non pote­vano in alcun modo considerarsi nel Maghreb come un dato, ma dovevano interamente co­struirsi per decisione politica attraverso una concertazione delle strategie di sviluppo e in particolare di industrializzazione, che por­tasse sia ad una specializzazione concordata, sia alla definizione di progetti comuni.
È chiaro che ciò poteva risultare più fa­cile negli anni '60, quando la ristrutturazio­ne delle economie, appena emerse dal colo­nialismo, era in fase iniziale, mentre risulta oggi notevolmente ardua non solo per la ri­petitività e dunque la concorrenzialità di mol­te strutture produttive nel frattempo create, ma anche per il timore, da parte dei paesi meno avanzati, che il diverso stadio di indu­strializzazione possa facilmente tramutare la perseguita armonizzazione in una gerarchizzazione concordata o inevitabilmente imposta per quanto riguarda la divisione del lavoro. Del resto, già nel 1972 il testo citato delle Ecoles d'administration osservava come tra e possibili soluzioni, si dovesse scartare una « regionalizzazione » dei settori, che avrebbe inevitabilmente assegnato l'industria di base all'Algeria e i servizi alla Tunisia — indub­biamente la più ricca di quadri — confinando il Marocco all'agricoltura o al massimo all'agro-industria. A questo riguardo, la situazio­ne non è mutata. D'altra parte, si può aggiun­gere che una sensibile riserva algerina nasce dall'opposto timore che l’« armonizzazione » perseguita possa implicare una riduzione dei suoi piani di sviluppo e una nuova distribu­zione di certe attività, che l'Algeria ha finora considerato come specificamente proprie.
Inoltre, un complesso problema nasce sul piano delle strutture economiche e dei modi di produzione. Già nel 1970, tra i problemi accantonati dalla Conferenza di Tangeri, era l'obiezione sollevata dall'Algeria quanto al­la difficoltà di realizzare la perseguita inte­grazione tra una economia sempre più risolu­tamente statalizzata e due sistemi che lascia­vano libero gioco alla iniziativa privata. È difficile prevedere quale sarà la misura di quella parziale privatizzazione dell'economia che è stata finora prospettata in Algeria a livello teorico, ma la cui definizione concre­ta è ancora oggetto di discussioni, che hanno contribuito al lungo ritardo subito dalla pub­blicazione del piano di sviluppo 1985-87. Certamente, tale misura sarà ben lontana dal liberismo tunisino e marocchino: tuttavia, anche circoscritto, il processo potrebbe con­tribuire a una capillare interpenetrazione a livello di piccola e media impresa, soprattutto in certi settori dell'industria leggera.
Sul piano economico, i caratteri più evi­denti dei tre paesi sono indubbiamente il ca­rattere concorrenziale di molte produzioni, e, d'altra parte, le medesime carenze. A que­sti fattori si deve in gran parte ascrivere la modestia dei progressi registrati dall'inter­scambio.
Rinunciamo a presentare un quadro della situazione perché le statistiche dell'ultimo decennio risultano in proposito non solo la­cunose ma estremamente contraddittorie: si vedano ad esempio quelle fornite dagli an-nuari del Gatt, dove i dati sono totalmente diversi — evidentemente per la discordanza delle fonti nazionali — a seconda del paese di riferimento. L'elemento che ne risulta più chiaramente è comunque l'estrema instabilità delle correnti di scambio, sia come conseguen­za delle tensioni politiche, sia per motivi strutturali: le fluttuazioni sono infatti tali da presentare, da un anno all'altro, sensibili impennate e altrettanto brusche cadute, e da rendere perciò impossibile l'individuazione di qualsiasi linea di tendenza. In generale, le punte più alte dell'ultimo quinquennio (tra i 50 e i 100 milioni di dollari) si presentano nelle importazioni algerine e libiche dalla Tu­nisia, tunisine dalla Mauritania e marocchine dalla Libia: le due ultime prevalentemente relative al ferro e al petrolio, mentre sulle prime incidono fortemente manufatti di con­sumo.
Questi caratteri di concorrenzialità e di comune carenza sono innanzi tutto evidenti nel settore alimentare, dove d'altra parte Li­bia e Mauritania presentano mercati troppo ristretti per offrire sufficiente sbocco alle produzioni eccedentarie dei tre, e condizioni climatiche totalmente inadatte a contribuire al superamento del deficit alimentare. I soli elementi di complementarità maghrebina nel settore agricolo rimangono finora affidati al­l'assorbimento libico, soprattutto di olio d'o­liva tunisino, e alla crescente produzione ma­rocchina di zucchero di barbabietola, di coto­ne e di ortofrutticoli. Ancora insufficienti a coprire un mercato maghrebino integrato, i tessili, i prodotti d'abbigliamento e i pellami (già oggetto di esportazioni regionali marocchine e tunisine), e i prodotti di consumo cor­rente (bibite, conserve, prodotti casalinghi), hanno finora seguito moduli fortemente ri­petitivi; ma potrebbero essere oggetto di una specializzazione integrata, che ne potenzie­rebbe l'interscambio. È chiaro che per i tes­sili, ciò sarebbe possibile soltanto sottraen­do il settore a quella integrazione « vertica­le » di cui esso è divenuto progressivamente oggetto tanto in Tunisia come in Marocco.
Già l'industria leggera, che l'Algeria ten­de nuovamente a potenziare, potrebbe dunque essere oggetto di un'azione capillare miran­te alla complementarità delle produzioni. Ma una più profonda integrazione dovrebbe es­sere affidata a quei due pilastri dell'economia maghrebina che sono i prodotti minerari ed energetici, risorsa fondamentale sulla quale si è fondato nei tre paesi gran parte dello sforzo d'industrializzazione, ma i cui processi di trasformazione in loco sono ancora a uno stadio scarsamente avanzato.
Dai documenti maghrebini di studio alle analisi degli esperti è stato spesso sottoli­neato come la frequente esistenza di giaci­menti minerari (petrolio, fosfati, ferro, piom­bo, zinco, argilla) in prossimità dell'una o del­l'altra frontiera abbia indubbiamente contri­buito, in certi casi, a esasperare il conten­zioso inerente alla definizione dei confini, ma d'altra parte possa costituire una base prezio­sa per iniziative comuni. E infatti, se nessuna pianificazione è intervenuta in proposito sul piano multilaterale, tale possibilità emerge concretamente da vari accordi bilaterali. In questa direzione vanno appunto due tra i più importanti progetti concordati nel quadro del­la convenzione algero-tunisina del 19 marzo 1983, e relativi a due impianti comuni situa­ti sul confine, in corrispondenza ai giacimenti della rispettiva materia prima (un impianto a Kalaat per la lavorazione del lithos, e un cementificio a Feriana): progetti che verran­no a costituire, insieme a una fabbrica co­mune di motori diesel a Sakiet Sidi Youssef, un rilevante complesso di produzioni con­giunte. Ricordiamo inoltre come parallela­mente al gasdotto Algeria-Italia attraverso la Tunisia — che viene così a beneficiare di forniture agevolate e di royalties — sia sem­pre sul terreno, sebbene accantonato a causa sia delle tensioni Algeri-Rabat, sia delle di­vergenze sorte tra Algeri e Madrid quanto alle fornitore di gas, il progetto di un ana­logo gasdotto tra l'Algeria e la Spagna attra­verso il Marocco. D'altronde, per quanto ri­guarda le risorse naturali, molti spunti me­todologici estremamente positivi emergono già dalla rete fittissima di accordi stipulati, come ricordavamo, lungo gli anni '60 e talora successivamente insabbiati.
Il settore delle materie prime è stato dun­que spontaneamente oggetto di varie forme di cooperazione chiaramente individuabili tra le maglie della rete disordinata e quasi casuale di accordi bilaterali via via stipulati: forme che vanno dalla produzione al trasporto al commercio alla trasformazione, che possono inserire i paesi meno favoriti in una complessa rete di attività collegate al prodot­to, d'altra parte facilitando, attraverso una convergenza delle forze intorno ad una razio­nale pianificazione, il raggiungimento di stadi più avanzati di lavorazione.
Tra i paesi maghrebini, soltanto l'Algeria consuma al suo interno il 45% della pro­pria produzione energetica e mineraria, men­tre i prodotti degli altri paesi sono in mas­sima parte esportati. Ora, esistono in questo settore, per i paesi maghrebini, anche alcu­ni elementi di possibile complementarità (il petrolio, presente solo in misura insignifican­te in Marocco, a sua volta invece esportato­re regionale di carbone e di argilla; la pro­duzione di fosfati, altissima per il Marocco, primo esportatore mondiale, abbastanza rile­vante in Tunisia, modesta in Algeria e as­sente in Libia; il ferro, fondamentale risor­sa della Mauritania e base strutturale della strategia industriale dell'Algeria, che può i-noltre esportare parte del minerale; il piom­bo, esportato da Marocco e Tunisia, e per il Marocco, lo zolfo e il cobalto), come esisto­no, per alcuni di questi prodotti e per altri, sovrapposizioni non insignificanti.
In campo commerciale, un esperimento di estremo interesse veniva realizzato negli an­ni '60 con la creazione del Comptoir Magh-rébin de l'Alpha, costituito nell'ambito degli accordi di Tangeri, e concretamente funzio­nante fino al rallentamento e infine al blocco negli anni 70. Compito del Comptoir fu la definizione di un prix-plancber, che i paesi aderenti s'impegnavano ad onervare, e di con­tingenti d'esportazione, superando i quali il ricavato eccedentario doveva essere distribuito tra tutti i paesi membri. Sarebbe certa­mente utopistico pensare ad una formula a-naloga per le materie prime minerarie: molto meno irrealistico, tuttavia, prevedere una complessa interazione di accordi di fornitura, processi comuni di trasformazione, agevola­zioni per il trasporto e, ove coincidano gli interessi, una strategia concordata per la commercializzazione con l'estero.
Per ragioni di spazio non ci soffermiamo su altri settori come la cooperazione tecnica (con particolare riguardo al settore dell'i­struzione) che ha avuto e potrebbe ritrovare notevole sviluppo negli accordi intermaghre-bini; e i trasporti marittimi, che costituisco­no indubbiamente, insieme al libero uso re­ciproco delle attrezzature portuali, uno dei settori privilegiati per la cooperazione regio­nale.
Concludendo, si può affermare che sul piano economico, l'integrazione maghrebina non è spontaneamente indotta dalle cose, ma appare certamente possibile qualora diven­ga una reale opzione politica. Dalla Confe­renza di Tangeri e dal trattato del 1974, do­ve figurano tra le clausole fondamentali, due esigenze hanno sempre esplicitamente domi­nato gli accordi intermaghrebini: la defini­zione di una posizione comune nei confronti della Cee, e la concertazione delle politiche commerciali nei confronti dei paesi terzi. Si tratta di esigenze che nascono da una proie­zione verso l'esterno insita nella struttura geopolitica come nell'economia e infine nella cultura del Maghreb, « finis terrae » del mon­do arabo — per citare un'altra definizione di Laroui — e come tale, delicata zona di sutura tra l'Europa, verso la quale l'inclina la sua dimensione mediterranea, e l'Africa sub­sahariana. La complessa e variabile interse­zione di queste dimensioni è elemento deter­minante per una eventuale integrazione mag­hrebina, alla quale i fattori politici appaiono al tempo stesso come il massimo ostacolo e un permanente incentivo.

I fattori politici

II Maghreb può considerarsi come il pun­to d'intersezione di varie catalizzazioni: ara­ba (ed arabo-islamica), africana, europea e mediterranea. Su ognuna di queste diverse direttrici, sono apparsi di volta in volta fat­tori di convergenza e di antagonismo, scelte ed alleanze contraddittorie, contrapposte ten­denze all'espansione o alla leadership, che hanno fortemente inciso sulle relazioni in-termaghrebine, e su cui queste hanno a loro volta esercitato una influenza determinante.
Di queste diverse variabili, la più stabile è senza dubbio, ai fini del rapporto inter-maghrebino, la componente islamica, quale riconosciuta appartenenza che unisce tutti i paesi in una comune radice culturale. Que­sta però viene sentita e gestita dalle rispet­tive élites in modo profondamente diverso. Un modo problematico e tormentato per l'Al­geria, dove la necessità di conciliare fedeltà all'Islam ed esigenze di modernizzazione, cul­tura autoctona e immissioni esterne, è ogget­to di una dialettica vissuta con profondo im­pegno, e tradotta in un dibattito costante e talora aspro, che incide profondamente sul costume: si può dire, del resto, che questa problematicità abbia trovato una espressione quasi emblematica in quel personaggio com­posito è talora sconcertante che è stato Boumediene, con la sua commistione di mistici­smo gelido e di lucido pragmatismo.
Un modo pacato e controllato per la Tu­nisia, dove l'islamismo è stato tranquillamen­te assunto dal gruppo dirigente come un dato culturale di fondo dal quale si doveva muo­vere anche quando si trattava d'infletterlo o contraddirlo (è noto l'uso fatto da Bourguiba dei testi del Corano per avallare le più ardite laicizzazioni, quali la profonda trasformazio­ne dello status della donna). In certo senso, si potrebbe equiparare la « islamicità » delle élites tunisine, esente da rigidi conformismi come da reali contestazioni, alla « cattolici­tà » di certi notabili italiani: e forse è pro­prio questo tipo di rapporto che ha reso la Tunisia particolarmente adatta a presiedere, in un ruolo pacatamente mediatore, quell'or­gano di azione politica che è la Conferenza islamica.
Infine, altrettanto specifico è il rapporto mantenuto dal regime marocchino con l'Islam: da un lato quasi appannaggio della di­nastia alaouita, di cui garantisce la legittimità e che sola ne tutela a proprio arbitrio l'orto­dossia — e d'altra parte, profondamente ra­dicato in quel ceto di notabili che ha dato a suo tempo origine all'Istiqlal, e che ha impresso su tutta la politica marocchina una impronta non facilmente obliteratale.
Tale posizione, d'altra parte, non è omo-logabile a quella di Gheddafi, che potrebbe dirsi profeta di una nuova comunità più che paladino dell'ortodossia islamica, e come tale, dunque, privo di una autorità « referente », e sostanzialmente isolato. Il Marocco è per­tanto, dei tre paesi maghrebini, l'unico per il quale l'Islam costituisce una diretta com­ponente della sfera del potere, e dunque l'unico che ne abbia fatto anche una conno­tazione della sua politica estera, innanzi tutto svolgendo, con l'Arabia Saudita, un ruolo de­terminante nella fondazione della Conferen­za islamica, e con questa appartenenza carat­terizzando il suo rapporto privilegiato con i paesi del Golfo. L'affermazione di laicità della politica lanciata, quasi a sfida, da Boumediene alla Conferenza di Lahore nel 1974, esprimeva insieme il dissenso dalla rete di alleanze e dalla strategia insita in quella ope­razione, ma anche un profondo divario cul­turale: elementi ambedue presenti nelle ten­sioni politiche algero-marocchine. L'antago­nismo inerente a quelle alleanze ha d'altron­de trovato diretta espressione in relazione al Sahara occidentale, dove il massimo con­senso islamico — dal Medio Oriente al Gol­fo e all'Africa subsahariana — va alle tesi marocchine.
Quanto detto finora si riferisce soltanto a quello che è stato l'atteggiamento preva­lente dei tre paesi sul piano ufficiale e nella cultura delle élites: quanto a quell'ondata di fondo ancora confusa e sostanzialmente com­posita che è costituita dai nuovi movimenti islamici di base, è chiaro come essi abbia­no una fondamentale componente comune nelle frustrazioni seguite ad una indipenden­za attesa come una palingenesi, e nella con­testazione che ne deriva nei confronti dell'at­tuale autorità politica e religiosa. Allo stesso modo, sono chiari i filoni fondamentali e ta-lora contrapposti in cui si inseriscono quei movimenti: meno facile individuare i carat­teri specifici eventualmente connessi, in o-gni paese, al diverso atteggiamento dei tre regimi, e gli scenari che ne potrebbero even­tualmente derivare.
La principale motivazione con cui la Libia, nel 1970, si staccava dall'intesa maghrebina, fu l'affermazione che un accordo particolare tra un gruppo di paesi arabi veniva a con­traddire il grande ideale del panarabismo, e ad allontanarne la realizzazione.

Tensioni con il Machreq

Ora, mentre la Libia e il Marocco, anche se su versanti politicamente opposti, hanno ge­neralmente mantenuto con il Machreq (i pae­si dell'Oriente arabo, cioè la regione medio­rientale), tanto sul piano « islamico » come sul terreno internatale, rapporti costanti e spesso molto intensi, si può invece notare in Algeri come in Tunisi una accentuata dif­fidenza nei confronti di qualsiasi programma panarabo: diffidenza nata in parte dal sospet­to che vi si celasse — nella strategia di Nasser come nelle disordinate improvvisazioni di Gheddafi — una sostanziale volontà di lea­dership regionale; ma anche determinata da profonde radici storiche e culturali, che ge­nerano in ognuno dei due paesi (e nel caso dell'Algeria, non senza le profonde lacerazio­ni interne culminate nella dissidenza cabila) un profondo attaccamento alla propria spe­cificità. È un atteggiamento che ha spesso cercato nella storia i suoi simboli, ricorren­do per esempio alla resistenza di Giugurta (nome emblematico spesso ricordato da Bourguiba e significativamente riproposto nel no­vembre 1983 da Chadli Benjedid, nel discor­so di apertura del congresso del Fln).
Nei primi anni d'indipendenza, la Tuni­sia è rimasta così sostanzialmente estranea non solo al panarabismo ma allo stesso Mach­req, da essere indotta, in ostilità alla politica di Nasser, ad abbandonare la Lega araba; e se al contrario vi ha acquisito, negli anni 70, una funzione di sempre maggiore rilievo (tan­to da pervenire, come nella Conferenza isla­mica, alla segreteria generale) è stato soprat­tutto grazie a quella capacità mediatrice che costituisce la connotazione più costante ed esplicitamente teorizzata della sua politica e-stera, e che spesso ha trovato il suo punto di forza — specialmente in relazione al con­flitto arabo-israeliano — proprio in una certa distanza, in cui una posizione nettamente pro­occidentale si abbinava a un convinto neu­tralismo.
Quanto all'Algeria, i suoi rapporti con il Machreq sono stati segnati da una costante diffidenza per le aspirazioni egemoniche di volta in volta evidenti nelle strategie del Cai­ro, di Baghdad o in altra forma di Riyadh (diffidenza pari, del resto, a quella nutri­ta e a malapena celata nei confronti dello scomodo vicino Gheddafi). Ciò ha condot­to l'Algeria ad una sostanziale estraneità ai giochi interarabi che le ha talora consen­tito efficaci mediazioni tendenti appunto a ri­dimensionare qualche tentativo espansionistico (come nell'accordo promosso nel 1975 tra Iran e Iraq). D'altronde, un'osservazione più attenta può individuare questa funzione mediatrice anche nell'azione costantemente svolta da Algeri tra le opposte fazioni create dal conflitto arabo-palestinese, in qualità di moderatore dei « radicali » nell'ambito del « fronte del rifiuto ».
Quanto al Marocco, la sua volontà di stret­to inserimento nel mondo arabo ha talora indotto Hassan II a un certo « protagoni­smo » anche in relazione al conflitto arabo-israeliano, come nel caso della Conferenza di Fès o nel simbolico invio di truppe, mai arri­vate al fronte, in occasione della « guerra di ottobre ».
In generale, si può dire che i rapporti con il resto del mondo arabo non contribuiscano alla convergenza tra i paesi del Maghreb: e ne troviamo un esempio recente nelle diver­genti posizioni cui ha dato luogo il conflit­to Iran-Iraq, e che sarebbe superficiale attri­buire soltanto ad una scelta di tipo bipolare. Nel caso della Libia e del Marocco, si può tuttavia parlare di una certa omologia « cul­turale » anche se tradotta, sul piano politico, in scelte antagoniste, che hanno indubbia­mente contribuito alla latente o dichiarante conflittualità da cui sono sempre stati ca­ratterizzati, fino all'accordo dell'estate 1984, i rapporti tra i due paesi. Nell'attuale volontà libica di uscire dall'isolamento — che è stata indubbiamente, per Tripoli, la motivazione dominante di quell'accordo — quella omo­logia può fornire però ai due paesi una non fragile base d'intesa.
Tale base, invece, è sostanzialmente assente per quanto riguarda le relazioni di Rabat con la Tunisia e l'Algeria: tuttavia, nel quadro dei rapporti con il Machreq, appaiono fra i tre paesi molti motivi di divergenza, ma nessuno di dichiarato conflitto, e alcuni ele­menti d'intesa (tra i quali l'incondizionato riconoscimento dei diritti del popolo palestinese) che una intensificazione del rapporto intermaghrebino potrebbe notevolmente svi­luppare.

I rapporti con l'Africa subsahariana

II settore più carico di elementi antagoni­sti, comunque, è sempre stato e rimane, per i paesi del Maghreb, l'Africa subsahariana. Salvo rari momenti di convergenza, le stra­tegie africane dei paesi maghrebini si sono sempre più sviluppate secondo linee divari­canti, lasciando sussistere una certa omoge­neità soltanto fra Tunisia e Marocco. Da par­te tunisina, l'esistenza di un rapporto privi­legiato con l'Africa nera era stato fin da prin­cipio teorizzato come una componente strut­turale risalente all'impero Almoravide, e per­tanto come una dimensione fondamentale di quella funzione di tramite tra vari mondi (e in particolare tra l'Africa e l'Europa) che si era consolidata lungo millenni di storia.
A questo tipo di approccio, aveva corrispo­sto nei primi anni '60 una vasta strategia di accordi bilaterali, che si è andata poi gradatamente circoscrivendo all'area delle intese tra « francofoni » promosse dalla Francia. Questo ha determinato un sostanziale alli­neamento con la politica di Parigi (e più in­direttamente con quella di Washington) nei confronti dei vari conflitti africani: tuttavia, con quella cautela che caratterizza la politica tunisina, sempre aliena da clamorose scelte di campo. Di qui, anche la ricerca di mezzi indiretti d'azione, come il tentativo, svolto in collaborazione con il Senegal, di coagulare quel gruppo sostanzialmente conservatore e filoccidentale che va sotto l'etichetta del « socialismo africano »: e d'altra parte, l'a­zione di coordinamento e di promozione svol­ta per la creazione di una agenzia africana di informazione, secondo l'esigenza polemica­mente avanzata in varie sedi internazionali dall'ala « progressista » del Terzo mondo.
Ben più recisamente univoca, la politica marocchina è sostanzialmente caratterizzata, più che da autonoma strategia, da diretti in­teressi congiunturali. All'inizio degli anni '60, si è trattato della volontà di bloccare la costituzione di uno Stato mauritano indipen­dente appoggiata dagli Stati africani conser­vatori: esigenza che ha costituito uno degli incentivi determinanti per l'inserimento del Marocco — con decisione indubbiamente ar­dita per un regime come quello alaouita — in quel fronte dei radicali che avrebbe pre­so il nome di « gruppo di Casablanca » (1961), e per l'attiva adesione al panafrica­nismo di Nkrumah. A parte la brusca svolta segnata successivamente dall'inserimento ma­rocchino nell'ambito « francofono », la po­litica subsahariana di Hassan II si può dire sostanzialmente inesistente per un decennio, e cioè fino al momento in cui la questione sa­hariana avrebbe dato nuovo impulso alla ri­cerca di appoggi africani: questa volta, con­trariamente a quanto era avvenuto per la Mauritania, nel vasto fronte dei paesi con­servatori. Da allora, abbiamo assistito alle più clamorose esibizioni di attivo appoggio alla strategia africana dell'Occidente e in par­ticolare della Francia, dal concreto sostegno al Fina durante la guerra civile angolana al­l'invio di truppe nello Shaba (Zaire), alle periodiche offerte d'intervento nel Sudan in funzione direttamente antagonista rispetto alla politica di Gheddafi. Se questa seconda strategia ha creato sensibili tensioni con la Libia, soprattutto per quanto riguarda la zo­na di sutura fra Nord Africa e Africa nera, è evidente che la contrapposizione con l'Al­geria, già inerente a ciascuna di queste scel­te, è stata esasperata dal dissenso sul Saha­ra occidentale, schierando i due paesi su due fronti africani contrapposti.
Si deve tuttavia sottolineare un particola­re di rilievo: se l'uno e l'altro incentivo a quelle opposte politiche — questioni della Mauritania e del Sahara occidentale — sono strettamente inseriti nella regione maghre-bina e, indirettamente, nella sfera degli inte­ressi arabi, in ambedue le strategie successi­vamente adottate, il Marocco ha potuto isti­tuire con preciso collegamento con il Machreq: per la prima fase, attraverso la coinci­denza nella politica panafricanista, e per la seconda attraverso la coincidenza con la po­litica africana che la Conferenza islamica, sebbene prioritariamente interessata agli e-quilibri del Corno, svolge tuttavia anche nel­l'Africa occidentale e particolarmente nel Sahel.
In certo senso, si può dire che non esista nella politica marocchina un concreto disegno africano se non subordinatamente a un pro­getto nazionale in cui convergono interessi economici attuali e reminiscenze di una tra­dizione imperiale, e che esige per la sua rea­lizzazione un retroterra africano relativamen­te sicuro, pure cercando altrove, e soprattutto nel mondo arabo, i suoi punti di riferimento. Questa intersezione contribuisce talora a esa­sperare le tensioni intermaghrebine e inter-arabe attraverso complesse proiezioni subsa­hariane: tuttavia, questo carattere per così dire derivato della politica africana di Rabat rende più credibile l'ipotesi che una mag­giore integrazione maghrebina possa provoca­re un notevole allentamento delle tensioni attualmente presenti rispetto al quadrante africano, d'altra parte contribuendo alla sua stabilizzazione.
Se i contrasti inerenti alla politica maroc­china sono indubbiamente i più esplosivi, bi­sogna tuttavia osservare che soltanto la Tu­nisia appare aliena da qualsiasi rischiosa e lacerante gara con i suoi vicini nei confronti dell'Africa subsahariana. Infatti tra Libia e Algeria esiste indubbiamente una rivalità che non è mai arrivata al conflitto, e anzi, viene generalmente mascherata dalle supposte con­vergenze con cui i due paesi si presentano programmaticamente in alcuni settori della scena internazionale, ma che potrebbe domani trasformarsi in divaricazioni.
Ambedue i paesi svolgono una politica afri­cana che può considerarsi come totalmente autonoma, e tendente ad esercitare una in­fluenza tous azimouts. Nel caso di Gheddafi, è una politica abbandonata come sempre, e forse più che in altre regioni, all'improvvisa­zione (dall'appoggio prioritario corrisposto a Mobutu e Amin, ai reiterati interventi nel Ciad, alle azioni di disturbo nei confronti del Sudan) e prevalentemente condotta attraver­so strumenti finanziari: crediti, joint-ventu-res, aiuti. Nel caso dell'Algeria, si tratta in­vece di una vasta politica organicamente per­seguita sotto i suoi tre successivi leaders, e che ha condotto a una fittissima rete di ac­cordi bilaterali di cooperazione. Ma ovvia­mente, da parte di ambedue i paesi, lo sforzo di penetrazione è più accentuato nella regio­ne subdesertica, dove l'intervento libico nel Ciad ha aggravato una delle più complesse cri­si africane, e dove l'Algeria ha costituito una cooperazione organica con il gruppo dei « pae­si rivieraschi del Sahara »: e appunto su que­sto terreno non sono da escludere possibili
frizioni tra Algeri e Tripoli, e una permanen­te diffidenza.
Anche nel caso della Libia, i rapporti con il Machreq esercitano una costante interazio­ne con le sue scelte subsahariane, dal Corno al Ciad. Questo fattore si può invece consi­derare, anche a questo riguardo, del tutto assente dalle posizioni algerine. Possiamo ri­cordare che dall'aumento dei prezzi del pe­trolio, Algeri ha tenuto a svolgere un ruolo di promozione ai fini di una cooperazione multilaterale tra mondo arabo e mondo afri­cano, ma ha voluto mantenere così totalmen­te la propria autonomia rispetto all'interven­to arabo, da istituire un proprio fondo per l'Africa affiliato bensì alla Banca araba per lo sviluppo africano — unica espressione concreta di quella cooperazione — ma da questa indipendente nelle sue scelte. L'ele­mento dominante nel rapporto algerino con l'Africa subsahariana, oltre al costante appog­gio a tutti i movimenti anticolonialisti, si può individuare nel fatto che il continente africa­no costituisce il primo referente per quel ruo­lo di paese-guida del Terzo mondo nei con­fronti del Nord industrializzato che è stato la massima aspirazione di Boumediene e cui l'Algeria non sembra malgrado tutto rinun­ciare.
Lo scenario internazionale
Nell'insieme, la strategia subsahariana dei quattro paesi (nei confronti dei quali la Mau-ritania ha comunque un ruolo minore) pre­senta dunque numerose incognite. Tuttavia, non è da escludere che una composizione della questione sahariana possa ricondurre il Ma­rocco alla relativa estraneità dimostrata in passato per le vicende dell'area. La impreve-dibilità dell'azione di Gheddafi rende meno facile l'individuazione di uno scenario per quanto riguarda la possibile rivalità libico-al­gerina nella regione subsahariana: tuttavia, l'assenza di specifiche connotazioni politiche di tale azione — salvo quelle connesse alla dia­lettica interaraba — può accentuare anche per Tripoli l'influenza di un consolidamento de­gli accordi intermaghrebini.
Infine, rimane da esaminare la catalizza­zione europea. Se essa ha dominato, come abbiamo ricordato, le intese maghrebine del 1964 e 1970, la preparazione dei nuovi accordi Cee-Maghreb è stata un fattore priori­tario, insieme alle prospettive aperte alla Con­ferenza di Helsinki, nei tentativi di rilan­cio che hanno dato luogo nel 1972 a una nuova serie di incontri al vertice. È una ca­talizzazione che nessuno dei tre governi ha mai messo in questione. Sostanzialmente, tale posizione non è mutata né di fatto, né per quanto riguarda le strategie di Algeri, di Tunisi e di Rabat.
La recente politica libica nei confronti del Marocco, che lascia intravvedere in Tripoli un crescente bisogno di uscire dall'usuale ruo­lo di chevalier setti, e alcuni sintomi di avvi­cinamento diretto, possono fare ipotizzare anche in Gheddafi una maggiore attenzione all'Europa, che sarebbe indubbiamente stimo­lata da un avvicinamento intermaghrebino. In generale, le divergenze più pericolose sono sorte finora, come abbiamo visto, non per qualche sintomo di allontanamento dall'Eu­ropa, ma nell'ambito della catalizzazione eu­ropea, per una incondizionata adesione alla strategia di un solo Stato, la Francia, e nei confronti del mondo occidentale nel suo complesso, per una sovrastante presenza sta­tunitense: ipotesi che hanno avuto concreto riscontro nel caso del Marocco. A questo pro­posito, bisogna mettere in rilievo una distin­zione fondamentale tra l'atteggiamento ma­rocchino e quello tunisino e algerino: pure non essendo, come dicevamo, messa in que­stione, la catalizzazione europea ha per il Marocco un fortissimo contrappeso nella ca­talizzazione atlantica, che si traduce da un lato, per quanto riguarda l'Europa, nella im­portanza prioritaria della relazione tradizio­nale e spesso ambivalente con quel paese tra due versanti che è la Spagna (relazione alle cui alterne vicende si può attribuire anche la sfida lanciata dal Marocco con la recente richiesta di adesione alla Cee), e d'altra parte nella presenza dominante degli Stati Uniti, cui soltanto il Marocco, nonostante i rappor­ti molto stretti e in qualche periodo priori-tari tra Tunisi e Washington, ha concesso delle basi militari nella regione maghrebina.
Una maggiore intesa politica intermaghre-bina potrebbe forse controbilanciare, in cer­ta misura, questi fattori di estroversione ma­rocchina rispetto all'Europa. Anche a questo fine, si può invece ritenere sostanzialmente negativo un approfondimento del solo accor do Libia-Marocco, che potrebbe facilmente condurre, permanendo le tensioni con gli al­tri paesi, a una sorta di enclave politica pro­iettata dal Maghreb verso il Machreq, con gli effetti laceranti che, nell'ambito maghre-bino, già si potevano intravvedere nelle rea­zioni algerine all'accordo di Oujda.
Gli incontri al vertice degli anni 70 han­no avuto come tema dominante, insieme ai rapporti con la Cee, i problemi della sicu­rezza del Mediterraneo. In certa misura, pel i paesi maghrebini catalizzazione europea e catalizzazione mediterranea si sono dimostra­te, di fatto, convergenti: innanzi tutto per il ruolo ipoteticamente assegnato e più volte richiesto all'Europa comunitaria, quale pos­sibile argine al trasferimento della conflit­tualità Est-Ovest nell'ambito mediterraneo. A questo proposito, le iniziative algerine e tunisine, lungo gli anni 70, sono state nu­merose, dalle dichiarazioni ufficialmente e-manate da quegli incontri al vertice sulla necessità di allontanare dal Mediterraneo le flotte straniere, all'azione svolta in seno ai non allineati perché il Mediterraneo venisse dichiarato « mare di pace », alle proposte di una conferenza tra rivieraschi non impegnati in blocchi militari, e infine all'intensa azio­ne diplomatica svolta fin da principio in seno alla Csce per una estensione al Mediterra­neo degli accordi sulla sicurezza europea. La diversa polarizzazione marocchina trova con­ferma nel relativo disinteresse dimostrato per i problemi mediterranei in occasione di que­ste varie iniziative. Quanto alla Libia, è chia­ro che il suo interesse mediterraneo, per il quale Tripoli ha cercato di fare leva non solo su Malta, ma, meno manifestamente, anche su Atene, ha finora dato luogo soltanto ad una strategia dirompente, tendente ad acquisire qualche punto di forza da usare in funzione di cuneo.
Nella nostra analisi delle diverse strategie maghrebine, abbiamo dedicato maggiore at­tenzione ai fattori endogeni che all'inseri­mento di quelle politiche nelle tensioni bipo­lari presenti nel Mediterraneo e nell'area ara­bo-africana. Questo fattore è indubbiamente rilevante, ma non sembra tuttavia costituire una componente strutturale di quelle strate­gie. Nel caso della Tunisia e dell'Algeria, ri­teniamo che esista una incontestabile volontà di tenere il più possibile estranea a tale tensione l'area regionale. A parte l'azione assi­duamente svolta, anche se con accentuazioni diverse, in seno ai non allineati per indurii a una sostanziale equidistanza, ci limitiamo a ricordare da un lato l'entità degli accordi e-conomici e degli scambi commerciali tra Al­geri e Washington, e d'altra parte la cura sempre manifestata da Tunisi nell'assicurare con Mosca i rapporti più distesi. Nel caso di Tripoli, le variazioni strategiche della po­litica praticata possono occasionalmente coin­cidere con gli interessi di una grande poten­za (come è stato per l'Urss nel caso della rinnovata « fusione » con la Siria) : ma tale coincidenza rimane sostanzialmente congiun­turale.
Certamente meno congiunturale, perché fondato innanzi tutto sulla massiccia pene­trazione economica iniziata negli anni '60, e tuttora alimentato da una politica di aiuti economici e militari che hanno creato una dipendenza organica, è il rapporto del Ma­rocco con gli Stati Uniti: rapporto che allo stato attuale delle cose, può indubbiamente costituire, nell'ambito del Maghreb, un fat­tore di turbamento. Non si deve tuttavia sot­tovalutare né l'entità degli accordi economici stipulati da Rabat con l'Urss (che del resto si è sempre guardata dal prendere posizioni troppo drastiche sul problema del Sahara occidentale) né il legame prioritario della politica estera alouita con progetti e inte­ressi di carattere prettamente nazionale. D'al­tra parte, dopo la visita di Chadli in Ame­rica le relazioni Algeria-Usa sono entrate in una fase di netta benevolenza. Una so­luzione della questione sahariana attenue­rebbe senza dubbio il massimo incentivo che gioca attualmente a favore degli Stati Uniti, e cioè la necessità di forniture milita­ri, di aiuti che compensino l'estenuante sfor­zo bellico e, più indirettamente, dell'influen­za politica che Washington può esercitare. Una maggiore intesa maghrebina — di cui la composizione del contenzioso sahariano è una fondamentale precondizione e che dovreb­be avere il suo « cuore duro » in una con­certazione tra Algeria e Tunisia — potrebbe dunque attenuare le più pericolose inciden­ze regionali del bipolarismo Est-Ovest, con un effetto politicamente stabilizzante in tut­ti i quadranti dello scacchiere euro-mediter­raneo-arabo-africano.

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