martedì 8 gennaio 2008

Ricordo di Liliana Magrini

Ricordando Liliana
di Marcella Glisenti


Marcella Glisenti durante un incontro in una scuola di Roma

II 2 luglio è morta a 68 anni, nell'ospe­dale di Mestre, Liliana Magrini. Gli amici dell'lpalmo la ricordano alla guida dell'Uf­ficio studi dove ha lavorato con intelligen­za e passione dalla fondazione dell'Istituto sino a un mese prima di cedere per sempre alla malattia che l'aveva colpita. In noi tutti la sua scomparsa lascia un vuoto par­ticolare: cosi accade per le persone com­plesse e riservate come era la Magrini, sempre amabile ma pur sempre nascosta nelle pieghe profonde di una personalità raffinata e misteriosa, ricca di esperienze e contaminazioni culturali difficili da distri­care, non riducibile a una schematica sem­plificazione. Sapevamo che prima di de­dicarsi ai problemi dei paesi in via di svi­luppo e in particolare ai temi del dialogo Nord-Sud, di cui era ormai diventata una esperta, Liliana Magrini aveva svolto un’attività letteraria, di critica e di narratrice, collocandosi tra i primi intellettuali italiani. Ma pochi di noi avevano potuto leggere i suoi libri e i suoi scritti, di cui evitava di parlare con una discrezione eccessiva, in­spiegabile.
Era nata a Venezia, e dopo il liceo clas­sico si era iscritta alla facoltà di Filosofia dell'Università di Padova. Tali studi avevano accentuato in lei l'interesse naturale alla riflessione e alla ricerca della verità. La sua passione per la verità era solidamente con­nessa all'esigenza del dubbio come prova decisiva della verità stessa. Era questo at­teggiamento il tratto più rilevante della sua personalità intellettuale e morale: fu una illuminista sans merci, e preferì rinun­ciare a molte gioie della vita piuttosto che attenuarne l'autenticità con le mistificazioni consolatorie di una qualsiasi fede. Di con­seguenza, non una moralista, ma persona dotata di coscienza intransigente, soprattut­to nei propri confronti. Gentile per istinto e per educazione, sempre interessata a ca­pire, aveva più curiosità per i problemi che per le persone. E fu il suo limite umano, la causa della solitudine in cui visse la se­conda parte della sua vita.
Il suo primo romanzo — La vestale — scritto in italiano e da lei stessa tradotto in francese per Gallimard, edito nel 1953, è, in controluce, non una storia autobiogra­fica, ma piuttosto un tentativo di denunciare i propri limiti: « Non sono capace di mesco­larmi alla vita, ne resto un'asettica custode che assiste al rito del vivere senza pene­trarlo, senza sapersene fare una vita per sé ». È un romanzo, La vestale, che la cri­tica francese definì opera di uno dei talenti più rari del tempo. Tre anni dopo seguì un secondo libro edito anche questo da Gallimard, Le carnet venitien, che sotto for­ma di diario si colloca in modo singolare nell'abbondante letteratura ispirata a Vene­zia, perché qui lo schizzo del paesaggio, la notazione estetica, sono sempre accom­pagnati da una compenetrazione che tra­muta la città in persona.
Nonostante l'invito degli editori, non scrisse più di narrativa. La sua creatività di Iì in avanti si esplicherà in reportages, critiche letterarie, articoli di ricerca filo­logica, servizi culturali per il Terzo program­ma della Rai e per la Televisione francese. Lentamente slitterà dal campo puramente letterario a quello esplorativo della civiltà nera che Liliana Magrini scopri in conse­guenza della sua passione per la lingua e la letteratura francese, e il mondo fran­cese in generale. Dai 29 ai 40 anni aveva vissuto quasi stabilmente a Parigi, che dopo Venezia fu la sua vera patria. Amica di Camus e di Malraux e di molti altri intel­lettuali che l'accolsero come una di loro, deve infatti a Parigi la sua formazione e il suo successo.
Tornata in Italia, benché apprezzata da molti, non riscosse lo stesso entusiasmo: più che gli scritti furono presi in conside­razione i suoi modi eccessivamente schivi, la sua inadattabilità alle regole del club culturale, come è d'uso in Italia, la sua ap­parente freddezza che si sgelava soltanto in folgoranti quanto laceranti passioni senza scampo. Per la Radiotelevisione francese cominciò a seguire i primi convegni inter­nazionali sull'emergente problema negro. A Roma nel 1959 per il primo Congresso de­gli scrittori negri; nel 1964 a Perugia; nel 1966 a Dakar per il primo Festival delle arti negre; nel 1967 a San Marino per un festival della cultura senegalese. Nel frat­tempo si era consolidato il suo lavoro col Terzo programma Rai, cosf che decise di stabilirsi a Roma.
Nel 1964, in occasione del convegno in­ternazionale « L'Africa nel mondo di doma­ni », che avevo organizzato in quanto pre­sidente della Associazione amici italiani di « Présence africaine », in collaborazione con l'Università di Perugia, l'incontrai per la prima volta tra i molti giornalisti italiani e stranieri che erano giunti per seguire i lavori di quella « prima assoluta » per la cultura italiana. Dapprima mi apparve di­stratta, con molte idee preconcette, ma I’insieme del suo atteggiamento mi rivelò subito dopo una intelligenza e un garbo intellettuale più che rari. Le sue osserva­zioni erano acute e arricchite da un sotto­fondo non provinciale, mai ritagliate sui discorsi italiani del tempo. La sua cultura, da grande dilettante, non era qualcosa che la concernesse come un bagaglio, ma era il modo stesso di sentire i problemi del momento, di accorgersene con sottigliezza, di prevederne gli sbocchi futuri. Comunque non era quasi mai l'aspetto politico del te­ma che potesse coinvolgerla, ma il suo nucleo storico e culturale.
Da allora ci vedemmo spesso, anche fuo­ri dei convegni e delle iniziative terzomon­diste in cui ero molto compromessa; lenta­mente diventammo amiche, facemmo insie­me molti viaggi di lavoro, ad Algeri, in Tunisia, a Istanbul, in Giappone, per citare solo i più importanti. Liliana accentuava sempre più la solitudine in cui aveva co­minciato a vivere dal suo rientro in Italia, ricordando ad ogni occasione la stagione d'oro trascorsa a Parigi così ricca di raffi­nate amicizie, di attività operosa, ma anche d'ingenue illusioni su se stessa, sulla pro­pria capacità di essere e allo stesso tempo di non tradire la propria autenticità, la ve­rità fatta uguale al sacro, l'unico sacro che riconoscesse tale.
La scelta fatta non le rese facile la vita, soprattutto a Roma, capitale dell'allusione, del detto appena accennato e poi subito negato, del compromesso come chiave della sopravvivenza nella società. Vi ci si adattò con buona grazia, ne fece la sua condizione esistenziale e la difese da ogni inquina­mento: perché infine esserne capace equi­valeva a una dignità assoluta, quanto se­greta. Il suo bisogno di autenticità la por­tava a discriminare con crescente rigore non solo le persone, i fatti, i problemi, ma persine i pensieri, escludendo da sé tutto ciò che non fosse essenziale.
Dopo il nostro viaggio in Giappone riprese le letture di filosofia Zen, lesse tutto quanto fosse reperibile sulla poesia e la letteratura giapponese, e nell'estate dell'anno scorso si dedicò a comporre meravigliosi haikou che vorrei pubblicare perché sono la sua ultima produzione letteraria, gli ultimi fuochi della sua qualità di intel­lettuale. Per lei il mondo non era né si­gnificante, né assurdo. Esso era, e basta.
Di fronte a tale assoluta nudità di miti non le restava che la guida di una coscienza illuminata, e l'attenzione ai minimi fenomeni del creato, i soli sopportabili dalla pochezza dell'essere umano messo di fronte al mistero della morte. Fu il suo discorso ultimo, il tema di cui si fece portatrice, con una compromissione interiore che corrispondeva al rispetto degli altri e alla responsabilità verso se stessa, ben lontana dunque dall'atteggiamento della «Vestale» che sapeva risolvere soltanto sul piano estetico la sua ragione d'essere.
La sua fu una maturazione nascosta, sotterranea e dura: e il suo tirocinio somiglia molto alla sua morte, silenziosa e paziente, disperata e senza un grido. Di se stessa aveva un'idea di cosciente devastazione che la filosofia Zen aveva aiutato a dissimilare sotto la maschera di una calma sorridente e di apparente distacco.
L'approdo all'Ipalmo aveva a suo tempo segnato il divorzio definitivo dal mondo letterario, perché nella tematica dell’Ipalmo aveva trovato un altro mondo, qualcosa a cui credere, cui darsi con tutto il proprio impegno mentale. Quando la malattia cominciò a incalzarla da vicino pensò alla morte in termini di stoicismo orientale. Gli ultimi tempi ripeteva: «Non moriamo: è la morte che sopraggiunge ». E si mise ad attenderla alla maniera Zen nascondendo la paura dietro una impeccabile compostezza.
Malgrado la grande amicizia che ci ha unite, mi rendo dolorosamente conti di quanto poco l'avevo conosciuta, di quanto poco le ho chiesto di lei, incapace di violare la sua riservatezza. E ora mi rendo di quanto è scarno il mio racconto, ed esile il ritratto che ho tentato di fare, per consegnare agli amici un'immagine più leggibile di quanto Liliana Magrini di sé permettesse. Del resto non è difficile concordare con Eraclito quando afferma: « L'anima dell’uomo è un paese lontano che non si può avvicinare, né esplorare ».

1 commento:

AldoTrifiletti da Madrid ha detto...

Scopro oggi, 17 aprile 2020, per puro caso la figura di Liliana Magrini attraverso il ricordo che traccia di lei Marcella Glisenti.Una bella pagina,anzi una pagina importante nell'ambito della letteratura del ritratto, ovvero dell'esercizio biografico sulla scorta della propria memoria.
Il nome di Liliana Magrini mi è apparso all'improvviso leggendo una breve biografia ragionata di Louis Guilloux inserita nel "grosso" volume che l'editore Gallimard, nella collana 'Quarto Gallimard', ha dedicato all'inquieto scrittore francese amico di Jean Grenier e di Albert Camus.
Detto questo so di aver detto ben poco perché non è facile sottrarsi alla incalzante suggestione procurata dalla figura della Magrini così come essa emerge attraverso le precise e a tratti dolorose parole della Glisenti.
Al momento come frettolosa nota personale posso solo dire che nella seconda metà degli anni 50 anch'io ho collaborato con il terzo programma della Radio italiana, terzo propgramma allora diretto da Cesare Lupo. Per cui oggi mi chiedo se chissà in quel tempo ho incrociato senza saperlo nei corridoi o uffici della RAI questa donna di grande valore ,la cui figura casualmente mi è apparsa oggi di fronte con tutta la sua personalità che cercherò di approfondire procurandomi i suoi scritti.

Aldo Trifiletti, da Madrid trimira@telefonica.net